venerdì 20 marzo 2009

- E' l'aria che non è buona -



Non andava mai in bagno quando c’era lei, aveva paura entrasse subito dopo e pensasse fosse marcio dentro, faceva certe cagate quando viveva con lei, - E’ l’aria che non è buona – gli diceva la nonna al telefono – E’ l’aria di città – non era lui che era marcio dentro.

La sua vita l’aveva cambiata - un virus rarissimo – gli avevan detto luminari della medicina, - il destino, il fato – aveva detto suo padre invece e sua madre e parenti caritatevoli e conoscenti e preti e sconosciuti che l avevan saputo. Era cambiata da quando avevano fissato il giorno in cui avrebbero dovuto macellargli le gambe, da quel momento era cambiata. Non avevano fissato un giorno proprio, tipo il 12 o il 13 o il 17, il periodo si però, dopo qualche mese massimo avrebbero dovuto avviare le operazioni d’asporto, zac e sarebbe rimasto senza, puff sparite, prima che le cose potessero degenerare, che le ossa potessero marcire completamente all’interno del suo corpo in parte ancora sano.

Ha guardato il medico e poi sua madre, gli veniva da piangere e ha abbozzato un sorriso, era estate fuori, sentiva caldo
– Bene – ha detto
– Quanto tempo abbiamo ? – ha detto e ha sentito sua madre stringergli la mano e ha sentito il suo dolore in quella stretta e le lacrime disegnare l’angoscia sul suo viso ma senza guardarla, non l’ha guardata
– Bene – ha ripetuto confuso – Abbiamo detto tutto mi sembra – ed era uscito fuori. – Basta, piangere a che serve, non ha detto mica che sono destinato a morire domani, non devi fare così – le ha detto e gli veniva da piangere stordito da mille pensieri indecifrabili e l’ha abbracciata e le ha sorriso ancora e ancora una volta per rassicurarla.

Erano cambiate le idee all’improvviso, alcune persone accanto a lui, le prospettive, le possibilità, i pensieri, lo sguardo sulle cose. Non per forza in negativo, non sempre in negativo, erano cambiate punto.


Aveva pianto solo qualche ora più tardi, aveva preso la macchina, era salito fino in cima alla collinetta dietro casa, pioveva forte, aveva spento il motore e guardato il cielo e il mare e aveva potuto piangere senza essere visto da nessuno, ascoltato da nessuno, Dio forse, se aveva un attimo, Dio al massimo.

Aveva lasciato che le lacrime gli facessero il solletico sul collo, non gli piace asciugarle con le mani, gli piace sentirle fino in fondo, lasciarle libere, sentirle scivolare, farle asciugare dalla pelle.

Certe persone non ce l’avevano fatta, non se l’erano sentita, alcune che gli stavano vicino si erano allontanate per non condividere, perché non ci riuscivano proprio e non poteva non capirle, doveva farlo per forza, capirle. Alcune soltanto, non tutte. Iniziavano a sorridergli meno, neanche fosse stato contagioso o lo facevano con meno spontaneità. – Peggio, peggio – gli rimbombava nella testa dello svegliarsi e rendersi conto che gli mancava effettivamente qualcosa che prima aveva. Non c’è più, punto.

- E’ peggio quando perdi una persona importante per uno stupido errore, allora si. Non in questo caso -. Si ripeteva, così si ripeteva e aveva voglia di correre e rincorrere consumarsi di acido lattico distruggerle prima che gliele portassero via. Questo desiderava quando gli tremavano le sue gambe, cigolavano, si assopivano.

Non andava mai in bagno quando c’era lei, aveva paura entrasse subito dopo e pensasse fosse marcio dentro, faceva certe cagate quando viveva con lei, - E’ l’aria che non è buona – le diceva la nonna al telefono – E’ l’aria di città – non era lui che era marcio dentro.

Non era poi cambiato molto.

Foto di Raffaele Cabras http://www.mixyourshot.com/

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